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La mossa di Silvio

Il dibattito politico sulle riforme istituzionali è in pieno fermento. Dopo la lettera di Grillo e Casaleggio al premier Renzi per proporre un nuovo incontro sulla legge elettorale, stavolta è il turno di Silvio Berlusconi. Il leader di Forza Italia, per uscire dal cono d’ombra del dualismo Renzi-Grillo e per poter dire ancora la sua sulle riforme istituzionali, rilancia il presidenzialismo. L’ex premier è convinto che l’incontro tra il leader del Pd e quello del M5S sarà l’ennesima bolla di sapone e per questo Renzi dovrà accordarsi con Forza Italia per portare avanti le riforme.  Berlusconi propone tre iniziative per arrivare al presidenzialismo: la riproposizione in Senato degli emendamenti Gasparri per l’elezione diretta del capo dello Stato; la presentazione di una proposta di legge costituzionale e infine un referendum confermativo per chiedere ai cittadini l’approvazione della scelta presidenzialista. Le tre iniziative hanno due obiettivi: far uscire allo scoperto Renzi, che spesso si è dichiarato favorevole a maggiori poteri per l’esecutivo, e soprattutto lanciare un segnale all’intero popolo dei moderati che in questo momento vive con un certo malessere l’assenza di una leadership e di una strategia chiara. Presentando alla Camera con Renato Brunetta e Paolo Romani la proposta sul presidenzialismo, Berlusconi afferma: «Dobbiamo dare il diritto ai cittadini di eleggere direttamente il Capo dello Stato. Renzi, il governo e la sinistra accolgano questa nostra proposta, Se ci fosse un accordo - aggiunge - sugli emendamenti che abbiamo presentato, si darebbe al Paese un sistema snello».  Sulle riforme, l’ex premier assicura: «Smentisco le accuse che dicono che noi non abbiamo una posizione chiara. Siamo l'opposizione liberale, di centrodestra a un governo di sinistra tenuto in piedi, ahimè da una stampella di 30 senatori, eletti dal centrodestra ma diventati lo sgabello su cui è seduta la sinistra».  E sul progetto del nuovo Senato Berlusconi manda un messaggio a Renzi: «La riforma del Senato squilibra lo Stato a favore dell'Anci e lo consegna alla sinistra. Forza Italia - precisa il Cavaliere -  mantiene gli impegni con Renzi ma c'è ancora da trovare l'intesa sull'elezione dei senatori ed io sono sicuro che la troveremo». Non manca una stoccata all’attuale inquilino del Quirinale: «E' passato al di là delle funzioni previste dalla Costituzione». Intanto domani è previsto un primo incontro tra Paolo Romani ed il ministro per le riforme Maria Elena Boschi.

La mossa di Silvio

Il dibattito politico sulle riforme istituzionali è in pieno fermento. Dopo la lettera di Grillo e Casaleggio al premier Renzi per proporre un nuovo incontro sulla legge elettorale, stavolta è il turno di Silvio Berlusconi. Il leader di Forza Italia, per uscire dal cono d’ombra del dualismo Renzi-Grillo e per poter dire ancora la sua sulle riforme istituzionali, rilancia il presidenzialismo. L’ex premier è convinto che l’incontro tra il leader del Pd e quello del M5S sarà l’ennesima bolla di sapone e per questo Renzi dovrà accordarsi con Forza Italia per portare avanti le riforme.
Berlusconi propone tre iniziative per arrivare al presidenzialismo: la riproposizione in Senato degli emendamenti Gasparri per l’elezione diretta del capo dello Stato; la presentazione di una proposta di legge costituzionale e infine un referendum confermativo per chiedere ai cittadini l’approvazione della scelta presidenzialista. Le tre iniziative hanno due obiettivi: far uscire allo scoperto Renzi, che spesso si è dichiarato favorevole a maggiori poteri per l’esecutivo, e soprattutto lanciare un segnale all’intero popolo dei moderati che in questo momento vive con un certo malessere l’assenza di una leadership e di una strategia chiara.
Presentando alla Camera con Renato Brunetta e Paolo Romani […]

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L’editto cinese di Renzi

«Sulle riforme non lascio a nessuno il diritto di veto: conta più il voto degli italiani che i veti di qualche politico che vuole bloccare le riforme» sbotta il premier Renzi davanti ad una platea di imprenditori italiani durante il viaggio istituzionale in Cina, appena gli giungono notizie da Roma. Il riferimento, neanche troppo velato, è rivolto all’ennesima polemica interna sulle riforme istituzionali che sta vivendo il Pd in una giornata nera per governo e maggioranza, andati sotto alla Camera sull’emendamento della Lega che istituisce la responsabilità civile per i magistrati. «Tecnicamente parlando è quella che si può definire una tempesta in un bicchier d'acqua» prova a sdrammatizzare Renzi. Ma l'incidente di ieri sulla giustizia è un altro colpo al governo, che anche al Senato si ritrova in affanno sulle riforme a causa dei numeri risicati della maggioranza. Scatta così la seconda epurazione in due giorni: dopo Mario Mauro, sostituito l’altro giorno da Casini, ieri è toccata a Corradino Mineo, il giornalista Rai estromesso dai membri Pd della commissione Affari costituzionali del Senato. Lo ha deciso ieri sera a larga maggioranza l'ufficio di presidenza del gruppo, che ha indicato come membro permanente il capogruppo Luigi Zanda. La posizione contraria di Mineo alla riforma del Senato voluta da Renzi era nota da tempo ed il suo voto era determinante in commissione. Si apre così un effetto domino sulle sosituzioni dei componenti Pd delle varie commissioni parlamentari. I renziani provano a serrare i ranghi tentando una prova di forza con l’opposizione interna, proprio per evitare di dover sottostare a veti futuri. Dopo ‘l’editto’ di Renzi dalla Cina il clima all’interno del Partito democratico si fa incandescente. Il primo a farsi sentire è Pippo Civati, per il quale la sostituzione di Mineo è «l'episodio più grave di una legislatura. È un errore politico: il vero problema è che Berlusconi non vota la riforma di Renzi, che non ha i numeri al Senato e se la prende con chi pone solo una questione di merito». Lo stesso Mineo considera la sua vicenda «un autogol per il governo e per il partito».  La resa dei conti è in programma sabato all’assemblea nazionale del Pd con il premier di ritorno dall’Asia pronto a rilanciare la posta in gioco, sapendo che stavolta ha dalla sua parte l’ottimo risultato elettorale delle europee. Se Renzi vuole davvero dare un seguito agli annunci degli ultimi mesi, è giunto il momento di dimostrare la sua determinazione, a cominciare dall’interno del suo partito.

L’editto cinese di Renzi

«Sulle riforme non lascio a nessuno il diritto di veto: conta più il voto degli italiani che i veti di qualche politico che vuole bloccare le riforme» sbotta il premier Renzi davanti ad una platea di imprenditori italiani durante il viaggio istituzionale in Cina, appena gli giungono notizie da Roma.

Il riferimento, neanche troppo velato, è rivolto all’ennesima polemica interna sulle riforme istituzionali che sta vivendo il Pd in una giornata nera per governo e maggioranza, andati sotto alla Camera sull’emendamento della Lega che istituisce la responsabilità civile per i magistrati. «Tecnicamente parlando è quella che si può definire una tempesta in un bicchier d’acqua» prova a sdrammatizzare Renzi.

Ma l’incidente di ieri sulla giustizia è un altro colpo al governo, che anche al Senato si ritrova in affanno sulle riforme a causa dei numeri risicati della maggioranza. Scatta così la seconda epurazione in due giorni: dopo Mario Mauro, sostituito l’altro giorno da Casini, ieri è toccata a Corradino Mineo […]

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Europee: il vincitore e gli sconfitti

All’indomani del 25 maggio il trionfo personale di Matteo Renzi è indiscutibile. Far superare la soglia del 40% al Pd probabilmente non era nemmeno nei sogni del premier. Ancor di più impensabile era immaginare di doppiare il M5S, quando i sondaggi riservati degli ultimi giorni davano per certo un testa a testa Renzi-Grillo. Il carattere storico della vittoria del Pd lo danno i numeri – nemmeno ai tempi di Berlinguer la sinistra è mai arrivata a tali percentuali – ma soprattutto il contesto europeo, dove i partiti al governo escono sonoramente sconfitti. Merkel a parte, in Francia e Gran Bretagna avanza la destra anti-euro con Front National e Ukip che volano e consentono a Marine Le Pen e Nigel Farage di far tremare rispettivamente Hollande e Cameron.  Il grande sconfitto di queste elezioni europee è senza dubbio Beppe Grillo. Ottenere solo il 21% dopo una campagna elettorale condotta all’insegna del sorpasso sul Pd dimostra l’inconsistenza del M5S alla prova dei fatti. Dopo un anno di presenza in Parlamento è svanito l’effetto novità dei grillini e la scelta di puntare tutto sugli attacchi a Renzi si è dimostrata perdente nelle urne, nonostante la straordinaria partecipazione nelle piazze. Adesso si apre un grande interrogativo sul futuro del movimento: riuscirà a mantenere la carica vitale che lo ha contraddistinto fino ad ora oppure rischia di implodere? Intanto circolano voci di un clamoroso ritiro di Grillo. Nonostante le attenuanti del caso, esce a pezzi anche Forza Italia con appena il 16,8%. Berlusconi era impossibilitato a far la campagna elettorale per le note vicende giudiziarie e poteva sicuramente andare peggio, soprattutto perché l’intero centrodestra supera comunque il 30%. Il problema - storico e di non poco conto - è la divisione interna e la mancanza di una nuova leadership credibile. E’ arrivato il turno di Marina? Vedremo.  Buon risultato per la Lega di Matteo Salvini che strappa un importante 6%. Il nuovo corso del giovane segretario sta facendo dimenticare la gestione Bossi e, quando ci sarà da ricostruire il centrodestra, Salvini potrà dire la sua.  Vero desaparecido è l’ex premier Mario Monti con la sua Scelta Civica che si dissolve come neve al sole e lascia in eredità al Pd il 9% ottenuto alle politiche scorse. Delusione cocente per il Nuovo Centrodestra di Alfano, che supera a stento lo sbarramento del 4% , nonostante i sondaggi gli assegnassero almeno un paio di punti in più. Difficile prentendere di essere l’alternativa a Berlusconi con tali percentuali. Per un soffio supera il 4% anche l’Altra Europa con Tsipras: un segnale importante per far crescere un’area più progressista alla sinistra del Pd. Non bissa il miracolo Fratelli d’Italia-An di Giorgia Meloni; per raddoppiare i voti in appena un anno non basta riproporre il simbolo di Alleanza nazionale. E adesso che succede? Renzi è atteso da sfide ancora più importanti. Dopo aver ottenuto una forte legittimazione elettorale, sarà interessante vedere come si comporterà con i suoi alleati - Alfano e montiani - usciti fortemente ridimensionati dalle urne. Sceglierà la strada del rimpasto o punterà tutto su elezioni anticipate, sfruttando l’onda lunga del consenso ottenuto? Altrettanto interessante sarà scoprire l’atteggiamento che avrà il segretario del Pd con i suoi storici avversari interni.

Elezioni europee: il vincitore e gli sconfitti

All’indomani del 25 maggio il trionfo personale di Matteo Renzi è indiscutibile. Far superare la soglia del 40% al Pd probabilmente non era nemmeno nei sogni del premier. Ancor di più impensabile era immaginare di doppiare il M5S, quando i sondaggi riservati degli ultimi giorni davano per certo un testa a testa Renzi-Grillo. Il carattere storico della vittoria del Pd lo danno i numeri – nemmeno ai tempi di Berlinguer la sinistra è mai arrivata a tali percentuali – ma soprattutto il contesto europeo, dove i partiti al governo escono sonoramente sconfitti. Merkel a parte, in Francia e Gran Bretagna avanza la destra anti-euro con Front National e Ukip che volano e consentono a Marine Le Pen e Nigel Farage di far tremare rispettivamente Hollande e Cameron.

Il grande sconfitto di queste elezioni europee è senza dubbio Beppe Grillo. Ottenere solo il 21% dopo una campagna elettorale condotta all’insegna del sorpasso sul Pd dimostra l’inconsistenza del M5S alla prova dei fatti. Dopo un anno di presenza in Parlamento è svanito l’effetto novità dei grillini e la scelta di puntare tutto sugli attacchi a Renzi si è dimostrata perdente nelle urne, nonostante la straordinaria partecipazione nelle piazze. Adesso si apre un grande interrogativo sul futuro del movimento: riuscirà a mantenere la carica vitale che lo ha contraddistinto fino ad ora oppure rischia di implodere? Intanto circolano voci di un clamoroso ritiro di Grillo.

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L’eterno ritorno dello spread

Come ogni elezione italiana che si rispetti ecco apparire lo spettro dello spread. Domenica si vota per le europee e da ieri è tornato a farsi vivo il nostro incubo recente. Stamattina, dopo una fiammata vicina ai 200 punti base, il differenziale tra Btp e Bund ripiega sotto ai 180. Il rendimento del titolo decennale italiano è al 3,21%, mentre per la Spagna lo spread è a 162 con rendimento decennale al 3,04%. Anche ieri abbiamo assistito allo stesso copione sui mercati finanziari. La pressione dei mercati sui titoli italiani è iniziata con i dati sulla frenata del Pil, tornato negativo a marzo. Adesso, con il volgere al termine della campagna elettorale il nervosismo degli operatori si dirige sempre più verso i titoli di Stato. Discorso diverso per la Borsa di Milano che appare più in grado di assorbire le fibrillazioni elettorali e i timori internazionali sulla situazione libica con il rischio di una crisi energetica.  Gli investitori sembrano non essere in grado di digerire il nuovo panorama politico tripolare ed i timori per un successo dei movimenti anti-euro o semplicemente contro l’austherity europea aumentano di giorno in giorno. Il banco di prova vero e proprio sarà nei giorni successivi alle elezioni quando partiranno le aste dei principali titoli di Stato. A differenza del passato, stavolta siamo ancora dentro i limiti ma se dopo le elezioni lo spread dovesse stabilizzarsi costantemente oltre i 200 punti, dalle parti del governo scatterebbe l’allarme rosso. Uno spread più elevato del previsto significa l’aumento della spesa per interessi con il conseguente rischio di mancare l’obiettivo della riduzione del deficit. Per il momento l’esecutivo professa cautela «Siamo di fronte ad un’oscillazione accettabile e che non deve impensierirci. Siamo soltanto a metà dell’anno ed è prematura qualsiasi preoccupazione. Dobbiamo invece fare in modo di irrobustire i segnali di ripresa che stanno arrivando» afferma il sottosegretario all’Economia   Pierpaolo Baretta. In una campagna elettorale già infuocata ci mancava solo lo spauracchio dello spread. Gli italiani però sembrano prestare meno attenzione alle notizie provenienti dai mercati. Forse questi tre anni vissuti pericolosamente con i dati sullo spread diffusi come bollettini meteo sono stati un buon banco di prova per la nostra maturità. La disoccupazione dilagante e un’imposizione fiscale da record fanno finalmente  distogliere lo sguardo dall’imbroglio dello spread.

Spread e mercati guardano alle elezioni europee

Come ogni elezione italiana che si rispetti ecco apparire lo spettro dello spread. Domenica si vota per le europee e da ieri è tornato a farsi vivo il nostro incubo recente. Stamattina, dopo una fiammata vicina ai 200 punti base, il differenziale tra Btp e Bund ripiega sotto ai 180. Il rendimento del titolo decennale italiano è al 3,21%, mentre per la Spagna lo spread è a 162 con rendimento decennale al 3,04%. Anche ieri abbiamo assistito allo stesso copione sui mercati finanziari. La pressione dei mercati sui titoli italiani è iniziata con i dati sulla frenata del Pil, tornato negativo a marzo. Adesso, con il volgere al termine della campagna elettorale il nervosismo degli operatori si dirige sempre più verso i titoli di Stato. Discorso diverso per la Borsa di Milano che appare più capace di assorbire le fibrillazioni elettorali e i timori internazionali sulla situazione libica con il rischio di una crisi energetica.

Gli investitori sembrano non essere in grado di digerire il nuovo panorama politico tripolare ed i timori per un successo dei movimenti anti-euro o semplicemente contro l’austherity europea aumentano di giorno in giorno. Il banco di prova vero e proprio sarà nei giorni successivi alle elezioni quando partiranno le aste dei principali titoli di Stato.

A differenza del passato, stavolta siamo ancora dentro i limiti ma se dopo le elezioni lo spread dovesse stabilizzarsi costantemente oltre i 200 punti, dalle parti del governo scatterebbe l’allarme rosso. Uno spread più elevato del previsto significa l’aumento della spesa per interessi con il conseguente rischio di mancare l’obiettivo della riduzione del deficit.

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Prodi “il petroliere”

Romano Prodi rientra nel dibattito politico e propone la sua ricetta anti-crisi: «Trivelliamo, c'è un mare di petrolio sotto l'Italia». Abbiamo risorse energetiche da sfruttare maggiormente, come la Val d’Agri, ed altre da iniziare ad esplorare come l’Adriatico ed il Canale di Sicilia. Questo il senso della lettera che l’ex presidente delle Commissione europea ha scritto ieri al Messaggero.  In una situazione economicamente difficile - esordisce Prodi - in cui ogni governo non riesce a «reperire nuove risorse per fare fronte ai suoi molteplici impegni, […] una parte modesta ma non trascurabile di questi soldi la può semplicemente trovare scavando - non scherzo - sotto terra. Ci troviamo in una situazione curiosa, per non dire paradossale, che vede il nostro Paese al primo posto per riserve di petrolio in Europa, esclusi i grandi produttori del Mare del Nord». L’ex premier entra anche nel dettaglio dei costi e dei benefici: «Significherebbe alleggerire la nostra bilancia dei pagamenti di circa 5 miliardi di euro  ed aumentare le entrate fiscali dello Stato di 2,5 miliardi ogni anno. Si attiverebbero investimenti  per oltre 15 miliardi». Ma Prodi è anche consapevole degli ostacoli dal punto di vista ambientale: «Mi rendo evidentemente conto che tra le mille ragioni ve ne sono parecchie che debbono essere prese seriamente in considerazione perché la sicurezza e la protezione dell’ambiente sono per tutti una priorità. Il principio di precauzione ha la precedenza su tutto. La risposta ai rischi industriali - prosegue - non è tuttavia l’impedimento a fare, ma la capacità di governarli. Il nostro Paese ha conoscenze, tecnologia, esperienza per riuscirvi ed ha una delle più severe legislazioni a tutela dell’ambiente e della sicurezza dei territori». Per l’ex presidente delle Commissione europea c’è il rischio che i nostri vicini di casa possano sfruttare prima di noi le risorse del sottosuolo: «Non intendo prendere in considerazione risorse energetiche che si trovano vicino alla costa. Mi limito ai giacimenti in mare aperto, il caso più clamoroso riguarda tutta la dorsale dell’Adriatico, così promettente da essere oggetto di un grandioso piano di sfruttamento da parte del governo croato, che ha recentemente chiamato a gara le grandi compagnie energetiche internazionali per sfruttare un giacimento che può fare della Croazia il “gigante energetico” d’Europa». Romano Prodi pone una questione seria e di lungo periodo. L’Italia ha rinunciato al nucleare, puntando su un mix di approvvigionamento energetico composto da petrolio, carbone, gas e rinnovabili ma la sufficienza energetica è solo un miraggio. I recenti eventi in Libia ed Ucraina ci dovrebbero far comprendere che la dipendenza energetica dall’estero ci rende eccessivamente vulnerabili. Ma non solo. Il principale aspetto negativo è il costo elevatissimo della bolletta energetica nazionale che si riversa sulle famiglie e sulle imprese, rendendo queste ultime meno competitive rispetto ai concorrenti internazionali. In più c’è il paradosso, un po’ come per il nucleare, che l’Italia ha multinazionali capaci di far investimenti in tutto il mondo tranne che nel proprio Paese.  Con la sua proposta l’ex premier ha messo – è il caso di dirlo – benzina sul fuoco in una campagna elettorale già in fiamme. Ora bisognerà attendere le reazioni dei tre principali leader: Berlusconi, Grillo e soprattutto il premier in carica, Renzi, a cui spetta l’onere maggiore. Sia perché milita nello stesso partito di Prodi, il Pd, sia perchè come capo del governo ha tutti i poteri per avviare una nuova fase della politica energetica nazionale.

Prodi propone nuove trivellazioni di petrolio in Italia

Romano Prodi rientra nel dibattito politico e propone la sua ricetta anti-crisi: «Trivelliamo, c’è un mare di petrolio sotto l’Italia». Abbiamo risorse energetiche da sfruttare maggiormente, come la Val d’Agri, ed altre da iniziare ad esplorare come l’Adriatico ed il Canale di Sicilia. Questo il senso della lettera che l’ex presidente delle Commissione europea ha scritto ieri al Messaggero.

In una situazione economicamente difficile – esordisce Prodi – in cui ogni governo non riesce a «reperire nuove risorse per fare fronte ai suoi molteplici impegni, […] una parte modesta ma non trascurabile di questi soldi la può semplicemente trovare scavando – non scherzo – sotto terra. Ci troviamo in una situazione curiosa, per non dire paradossale, che vede il nostro Paese al primo posto per riserve di petrolio in Europa, esclusi i grandi produttori del Mare del Nord».

L’ex premier entra anche nel dettaglio dei costi e dei benefici: «Significherebbe alleggerire la nostra bilancia dei pagamenti di circa 5 miliardi di euro  ed aumentare le entrate fiscali dello Stato di 2,5 miliardi ogni anno. Si attiverebbero investimenti  per oltre 15 miliardi». Ma Prodi è anche consapevole degli ostacoli dal punto di vista ambientale: «Mi rendo evidentemente conto che tra le mille ragioni ve ne sono parecchie che debbono essere prese seriamente in considerazione perché la sicurezza e la protezione dell’ambiente sono per tutti una priorità. Il principio di precauzione ha la precedenza su tutto. La risposta ai rischi industriali – prosegue – non è tuttavia l’impedimento a fare, ma la capacità di governarli. Il nostro Paese ha conoscenze, tecnologia, esperienza per riuscirvi ed ha una delle più severe legislazioni a tutela dell’ambiente e della sicurezza dei territori».

Per l’ex presidente delle Commissione europea c’è il rischio che i nostri vicini di casa possano sfruttare prima di noi le risorse del sottosuolo: «Non intendo prendere in considerazione risorse energetiche che si trovano vicino alla costa. Mi limito ai giacimenti in mare aperto, il caso più clamoroso riguarda tutta la dorsale dell’Adriatico, così promettente da essere oggetto di un grandioso piano di sfruttamento da parte del governo croato, che ha recentemente chiamato a gara le grandi compagnie energetiche internazionali per sfruttare un giacimento che può fare della Croazia il “gigante energetico” d’Europa».

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A Renzi non tornano i conti

Matteo Renzi professa ottimismo, nonostante il giovedì nero in Borsa e i numeri negativi sulla crescita dell’economia italiana, con relativa impennata dello spread. Un doppio colpo per il governo in piena campagna elettorale. Prima i dati Istat sulla crescita esigua del Pil, poi lo spread che vola da 154 a 180 punti in poche ore, rischiano di mandare all’aria i sogni del governo.   In realtà, per alcuni analisti, come riporta “Affari Italiani”, se anche il secondo trimestre di quest'anno si attestasse su una flessione del Pil sarebbe necessaria una dura revisione delle coperture e delle spese. Con un prodotto interno lordo negativo sarebbe a rischio anche il rispetto degli impegni con l’Unione europea. Per rientrare nel rapporto deficit-Pil e per non sforare i parametri sul debito pubblico a settembre, potrebbe essere inevitabile una manovra economica di aggiustamento dei conti con la probabilità di nuove tasse per gli italiani.  Ma il premier non ci sta: «Non serve una nuova manovra correttiva» rassicura in un’intervista a ''Radio24'', e conferma gli ormai “mitici” 80 euro di bonus «anche per rilanciare un po' i consumi». Mentre solo per il prossimo anno dovrebbe toccare anche a partite iva, pensionati ed incapienti.  «Il nostro intervento sul cuneo fiscale è il primo taglio delle tasse di questo Paese», attacca Renzi, «ma il male vero resta la disoccupazione giovanile», facendo riferimento al decreto lavoro approvato proprio ieri in via definitiva dalla Camera. Il premier ne ha anche per la Cgil: «Non ho niente contro Camusso, ma per la firma sul rilancio di Electrolux ringrazio sempre i sindacati, però è importante che non facciano politica».  Tornando sui conti pubblici, il presidente del consiglio rivendica «l'eliminazione di tremila posti pagati dalla politica, a iniziare dai presidenti di provincia». Anche sui tagli alla Rai la vede a modo suo: «La questione non è quanto prende il singolo, ma se c'è un momento in cui la politica fa un passo indietro, se nella pubblica amministrazione si possono licenziare i dirigenti, possibile che la Rai non debba fare la sua parte?».

80 euro di Renzi

Matteo Renzi professa ottimismo, nonostante il giovedì nero in Borsa e i numeri negativi sulla crescita dell’economia italiana, con relativa impennata dello spread. Un doppio colpo per il governo in piena campagna elettorale. Prima i dati Istat sulla crescita esigua del Pil, poi lo spread che vola da 154 a 180 punti in poche ore, rischiano di mandare all’aria i sogni del governo.

In realtà, per alcuni analisti, come riporta “Affari Italiani”, se anche il secondo trimestre di quest’anno si attestasse su una flessione del Pil sarebbe necessaria una dura revisione delle coperture e delle spese. Con un prodotto interno lordo negativo sarebbe a rischio anche il rispetto degli impegni con l’Unione europea. Per rientrare nel rapporto deficit-Pil e per non sforare i parametri sul debito pubblico a settembre, potrebbe essere inevitabile una manovra economica di aggiustamento dei conti con la probabilità di nuove tasse per gli italiani.

Ma il premier non ci sta: «Non serve una nuova manovra correttiva» rassicura in un’intervista a ‘‘Radio24”, e conferma gli ormai “mitici” 80 euro di bonus «anche per rilanciare un po’ i consumi». Mentre solo per il prossimo anno dovrebbe toccare anche a partite iva, pensionati ed incapienti.

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Il “niet” di Napolitano al complotto

Dopo oltre ventiquattro ore dalle rivelazioni dell’ex segretario Usa al Tesoro, Timothy Geithner, sul presunto complotto nel 2011 ai danni del governo Berlusconi giungono le prime reazioni del Quirinale. Il presidente della Repubblica non è mai stato a conoscenza di «pressioni e coartazioni subite dal presidente del Consiglio nei momenti e nei luoghi di recente evocati» in merito agli eventi che portarono alle dimissioni di Silvio Berlusconi dalla carica di presidente del Consiglio. «Le dimissioni liberamente e responsabilmente rassegnate il 12 novembre 2011 dal presidente Berlusconi e già preannunciate l'8 novembre - riferisce una nota - non vennero motivate se non in riferimento, in entrambe le circostanze, a eventi politico-parlamentari italiani».   Napolitano sembra quasi non voler dare penso alle polemiche divampate e prova a gettare acqua sul fuoco rimandando al discorso tenuto al Quirinale il 20 dicembre 2011 in occasione della Cerimonia di scambio degli auguri con i rappresentanti delle istituzioni e delle forze politiche: «In quel discorso - spiega la nota - così come nel messaggio televisivo del 31 dicembre, possono ritrovarsi tutte le motivazioni relative a fatti politici interni e a problemi di fondo del paese come quelli della crisi finanziaria ed economica che l'Italia stava attraversando nel contesto europeo».  Una risposta netta, anche se tardiva, a chi lo aveva chiamato in causa non solo come prima carica istituzionale ma soprattutto come testimone diretto di quel delicato passaggio politico-parlamentare. Ieri Silvio Berlusconi durante una manifestazione elettorale a Roma: «Un ministro della prima amministrazione di Obama ha fatto affermazioni, che lasciano pochi dubbi, in cui ha raccontato come nel G20 di Cannes per due volte Merkel e Sarkozy convocarono una riunione che aveva una finalità e cioè far sì che nostro paese fosse colonizzato e, con la sospensione del potere del governo, lasciato alla Troika».  Il leader di Forza Italia, apprendendo in diretta le parole del Quirinale, non trattiene la rabbia attaccando anche i giornali che «non hanno riportato in prima pagina» le reazioni in seguito alle dichiarazioni dell’ex ministro Usa.  Ma stavolta al centro del mirino dell’ex premier c’è anche l’attuale inquilino di Palazzo Chigi che, nel corso della sua intervista a “Ballarò”, la sera prima aveva liquidato le denunce di Forza Italia con una delle sue battute: «siamo al diciassettesimo complotto».

Il “niet” di Napolitano al complotto contro Berlusconi

Dopo oltre ventiquattro ore dalle rivelazioni dell’ex segretario Usa al Tesoro, Timothy Geithner, sul presunto complotto nel 2011 ai danni del governo Berlusconi giungono le prime reazioni del Quirinale. Il presidente della Repubblica non è mai stato a conoscenza di «pressioni e coartazioni subite dal presidente del Consiglio nei momenti e nei luoghi di recente evocati» in merito agli eventi che portarono alle dimissioni di Silvio Berlusconi dalla carica di presidente del Consiglio. «Le dimissioni liberamente e responsabilmente rassegnate il 12 novembre 2011 dal presidente Berlusconi e già preannunciate l’8 novembre – riferisce una nota – non vennero motivate se non in riferimento, in entrambe le circostanze, a eventi politico-parlamentari italiani».

Napolitano sembra quasi non voler dare penso alle polemiche divampate e prova a gettare acqua sul fuoco rimandando al discorso, tenuto al Quirinale il 20 dicembre 2011, in occasione della Cerimonia di scambio degli auguri con i rappresentanti delle istituzioni e delle forze politiche: «In quel discorso – spiega la nota – così come nel messaggio televisivo del 31 dicembre, possono ritrovarsi tutte le motivazioni relative a fatti politici interni e a problemi di fondo del paese come quelli della crisi finanziaria ed economica che l’Italia stava attraversando nel contesto europeo».

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Inchieste ed elezioni: binomio all’italiana

Come spesso accade nelle campagne elettorali italiane arriva puntuale un’inchiesta giudiziaria con arresti eccellenti. Stavolta sono ben due: la prima riguarda l’ex ministro dell’Interno Claudio Scajola, indagato per concorso esterno in associazione mafiosa riguardo una presunta rete di protezione per favorire la latitanza dell’ex deputato del Pdl Amedeo Matacena. La seconda inchiesta, di portata ben più vasta e trasversale, è sulle presunte tangenti per gli appalti di Expo 2015. Al di là delle considerazioni puramente giudiziarie, emerge ancora una volta un quadro sconcertante. Se da un lato Scajola, esponente non più di prima linea ma ancora importante di Forza Italia, sarebbe secondo gli inquirenti uno snodo centrale di una vasta rete criminosa in odor di mafia; dall’altro versante, quello dell’Expo, sembra di assistere al remake di Mani Pulite. Non siamo nel 1992 ma nel 2014. Scomparsi Dc, Psi e Pds ci ritroviamo Forza Italia, Pd e Ncd. A fare la parte del leone sono le imprese della Compagnia delle Opere che fa riferimento a Comunione e Liberazione e le cooperative rosse legate da sempre al Pd. Ma c’è un comun denominatore con gli anni novanta: Primo Greganti, il mitico “Compagno G” che all’epoca di Mani Pulite si fece carico di tutte le responsabilità pur di non compromettere il Pds. Stavolta il contesto è internazionale, c’è l’Expo e una valanga di miliardi per le opere pubbliche. A poco più di quindici giorni dalle elezioni è uno colpo pesante, soprattutto per il Partito democratico e per Renzi che è impegnato a trovare la copertura finanziaria per gli 80 euro di bonus promessi e non può permettersi passi falsi. Grillo si fa trovare pronto e attacca frontalmente l'Expo, chiedendone lo stop immediato. Per il leader del M5S l'Expo è «una grande abbuffata» che «va fermata subito». L’ex comico denuncia «gli scandali» di quella che definisce «la grande abbuffata Expo 2015». Il premier è oggi a Milano per incontrare gli imprenditori, discutere insieme il dossier Expo e affrontare la nomina del nuovo direttore generale. Renzi ribadisce l'impegno del governo per l'Esposizione universale del 2015: «Io preferisco perdere qualche punto nei sondaggi piuttosto che fermare questa occasione di investimenti per l'Italia. L’Expo è una grandissima opportunità per l'Italia, ma dobbiamo fermare i delinquenti e non i lavori» ha detto il premier dopo aver espresso «assoluta fiducia» nei confronti del commissario unico Giuseppe Sala. E intanto affida a Raffaele Cantone, magistrato antimafia e presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione, il controllo sui lavori dell’Expo.

Inchiesta sull’Expo 2015

Come spesso accade nelle campagne elettorali italiane arriva puntuale un’inchiesta giudiziaria con arresti eccellenti. Stavolta sono ben due: la prima riguarda l’ex ministro dell’Interno Claudio Scajola, indagato per concorso esterno in associazione mafiosa riguardo una presunta rete di protezione per favorire la latitanza dell’ex deputato del Pdl Amedeo Matacena. La seconda inchiesta, di portata ben più vasta e trasversale, è sulle presunte tangenti per gli appalti di Expo 2015.

Al di là delle considerazioni puramente giudiziarie, emerge ancora una volta un quadro sconcertante. Se da un lato Scajola, esponente non più di prima linea ma ancora importante di Forza Italia, sarebbe secondo gli inquirenti uno snodo centrale di una vasta rete criminosa in odor di mafia; dall’altro versante, quello dell’Expo, sembra di assistere al remake di Mani Pulite.

Non siamo nel 1992 ma nel 2014. Scomparsi Dc, Psi e Pds ci ritroviamo Forza Italia, Pd e Ncd. A fare la parte del leone sono le imprese della Compagnia delle Opere che fa riferimento a Comunione e Liberazione e le cooperative rosse legate da sempre al Pd. Ma c’è un comun denominatore con gli anni novanta: Primo Greganti, il mitico “Compagno G” che all’epoca di Mani Pulite si fece carico di tutte le responsabilità pur di non compromettere il Pds. Stavolta il contesto è internazionale, c’è l’Expo e una valanga di miliardi per le opere pubbliche.

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Renzi lancia la sfida a Grillo

Renzi lancia la sfida a Grillo

Renzi lancia la sfida a Grillo

Un derby tra «rabbia e speranza». Alla direzione del Pd Matteo Renzi sceglie un paragone calcistico, piuttosto coraggioso visto il momento, per illustrare l’appuntamento delle prossime elezioni europee. Una sfida «tra chi scommette sul fallimento dell’Italia e chi pensa che l’Italia ce la può fare. Prima eravamo abituati a falchi e colombe, ora ci sono solo gufi e sciacalli» continua il premier, stavolta in ambito ornitologico. E il messaggio è indirizzato al leader del M5S: «Quando Grillo è andato a Piombino, è andato a fare lo sciacallo su una fabbrica che chiude. Io non sono tenero con i sindacati, ma l’ultimo luogo in cui andare a fare lo sciacallo è dove un’azienda come la Lucchini chiude. Noi abbiamo proposto una soluzione. Questa è la differenza tra chi scommette contro e chi scommette a favore dell’Italia». Tra l’altro in mattinata lo stesso Grillo aveva attaccato il premier paragonandolo a «Genny ’a carogna», il capo ultrà del Napoli al centro delle polemiche dopo gli spari di un tifoso della Roma prima della finale di Coppa Italia.

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Riforme, ennesima puntata

Colloquio Napolitano Renzi

Colloquio Napolitano Renzi

Il milione di pellegrini che ha invaso Roma per assistere alla canonizzazione di Giovanni Paolo II e Giovanni XXIII non è al corrente del consueto spettacolo che sta offrendo la politica italiana in queste ore.  La Roma dei palazzi della politica freme, ma non solo per l’imminente inizio della campagna elettorale per le europee. Sabato si è svolto un colloquio al Quirinale sulle riforme istituzionali tra il Presidente della Repubblica Napolitano ed il premier Renzi, come peraltro annunciato da un “fuorionda” durante le celebrazioni del 25 aprile.

Al centro della discussione le frizioni tra il capo dell’esecutivo e Forza Italia, in seguito alle dichiarazioni di Berlusconi che in settimana aveva definito «incostituzionale» la nuova legge elettorale se concomitante alla riforma del Senato.

L’obiettivo del governo è approvare la riforma del Senato in prima lettura entro la data delle elezioni europee.

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